Fiorenzo Degasperi

Antonello Serra: sulle tracce della propria memoria

Ozu meu volantinu,
in d’un’ora che sia in tale caminu!
(Olio che mi fai volare,
fa’ che in un’ora mi trovi nel tal posto!)

detto di Ollolai

Avevamo lasciato Antonello Serra aggirarsi in un paesaggio surreale, in un mondo pullulante di esseri in continua metamorfosi. Lo troviamo dopo qualche anno di lavoro con una tavolozza rielaborata. Uscito dal labirintico universo surreale ha avuto bisogno di riappropriarsi del proprio passato, della propria terra. E lo ha fatto utilizzando con maestria la ricchezza dei segni arcaici e archetipi che contraddistinguono la preistoria e la storia della terra sarda. Una continuità segnica che ha accompagnato le varie culture che si sono succedute nell’isola a partire dal neolitico fino ai magici bronzetti del popolo dei nuraghi diventati, in seguito, statue di Santi, Madonne e dolorosi Cristi.
Ogni segno che traccia sulla tela non è mai casuale anche se apparentemente sembrerebbe frutto di una gestualità automatica. Antonello Serra ha voluto scartare l’ipotesi del recupero della memoria e del ricordo utilizzando pratiche impiegate nei lavori precedenti: quello dell’accumulo, del surplus di icone figurative o non figurative, dell’affollamento acquatico. Ha voluto invece distillare ogni codice visivo lasciandolo lì dove poteva concorrere a formare una mappa estetica del proprio passato. Tale pratica risponde sempre ad un flusso energetico diventato colore e segno ma ora la consapevolezza del proprio fare è maggiore, mirata, cercata. E’ come se avesse intrapreso una sorta di pellegrinaggio visivo nell’immaginario collettivo dei sardi, recuperando pratiche, credenze e tradizioni che sono giunte fino a noi, dipinte sui vasi, sulle pareti delle grotte, incise nelle pietre dei nuraghi o fuse nei bronzetti, nonostante divieti sinodali e condanne inquisitoriali.
Per osservare al meglio opera per opera bisognerebbe farsi accompagnare da quell’incredibile testo di Giovanni Lilliu de “La civiltà dei sardi dal paleolitico all’età dei nuraghi”, 900 pagine che testimoniano, attraverso una rigorosa ricerca archeologica, etnologica, antropologica e geografica, e una peculiare sensibilità umanistica, la ricchezza archeologica della terra più antica del Mediterraneo. Allora un mondo si apre davanti a noi e l’opera di Antonello Serra diventa un anello di congiunzione tra passato e presente. Anello volto a ricongiungere, ricostruire, ricollegare la propria memoria con il bisogno di dar senso ad un presente altrimenti svuotato dalla superficialità tutta modernista che non ha saputo salvare e salvaguardare i segni della propria storia.
Lo stesso uso da parte dell’artista di cromie “terrose” ci riporta alle regioni sarde ricche di testimonianze archeologiche: dallo ziqqurat di Monte d’Accoddi alle tante tombe dei giganti disperse nelle terre assolate del nord e del centro, alle splendide navi bronzee, ai guerrieri nuragici, ai nuraghi che segnano geograficamente e orientativamente i percorsi di una nazione che ha saputo per secoli sviluppare una cultura da far concorrenza a etruschi, sanniti, piceni, dauni, minoico-micenei, ecc.
Sono segni che si richiamano alla decorazione geometrica delle anse di brocche askoidi (S. Antine, Torralba), ruote solari, spirali, zig zag acquatici del santuario di Oschiri, le figure armate (corni e pugnali e tridenti delle statue-menhirs di Làconi). Sono gli uomini oranti delle grotte di Sas Concas, figure che popolano le Domus de Janas diventati in seguito credenze stregonesche e fatate.
Scorrendo queste opere si capisce come l’artista abbia voluto, più che costruire delle “immagini pittoriche”, offrirci delle vere e proprie porte su un al di là e su un passato ricco di miti, credenze e leggende che hanno creato con il tempo una geografia culturale stratificata da cui ancor oggi siamo affascinati, attratti e trasportati. Le figurine essenziali, sintetiche hanno un forte valore simbolico legato alla rigenerazione di dee della fertilità e della riproduzione vegetale. Gli oranti capovolti di Moseddu e Sas Concas raffigurano il morto che precipita nel mondo degli inferi in posizione rovesciata rispetto a quella del vivo, per conformarsi, essendo ormai acquisito a quel mondo, a quella geografia infera. Dee madri e virili guerrieri si incontrano, si raggruppano per poi disperdersi in questi lavori che sanno lasciar spazi vuoti alla fantasia.
Ha fatto bene Antonello Serra a recuperare quell’humus culturale da cui proviene e che ancora vivifica la memoria collettiva delle vecchie generazioni e costituisce attualmente il segno più prezioso di una sapienza dalle radici remote.

Fiorenzo Degasperi