Fiorenzo Degasperi 2008




E’ un vaso di Pandora

dell’inconscio quello che Antonello Serra ha aperto molti anni fa. I venti che ne sono usciti hanno strane forme, volumi. Uomini che hanno intessuto legami magici con il mondo vegetale, con quello minerale. Hanno intrecciato storie e umori, paure ed angosce, speranze ed illusioni. Ed è proprio l’ammirazione, o il timore, o ancora il desiderio di magia, intesa come strumento nato dalla volontà di togliere i sette veli che rivestono la conoscenza, che hanno portato l’artista a creare prodigiosi esseri che popolano queste opere. Che attingono alla pentola ribollente del surrealismo, alla sua grande capacità di narrare e, ancor oggi, di raccontare, gli stati d’animo, le pulsioni, le irriverenti incursioni della mente nel territorio del desiderio o del suo silenzio.
 Con un pizzico, direbbe Salvador Dalì, di paranoia critica perché soltanto l’ossessione può farci conoscere il Minotauro che abbiamo dentro di noi e salvarci dalla disperazione di questa moltitudine di esseri che sembrano essere nati dai racconti di un H. P. Lovercraft esente dai fumi dell’alcool o dalle tavole di Hieronimus Bosch.
Dentro queste opere non si può correre, soltanto camminare lievemente affinché l’amour fou, l’amore folle, possa essere il filo d’Arianna che ci accompagna nei teatri dell’inconscio. Qui, in questi lavori, si lavora per analogia, per metafore, per simboli. Ognuna di queste composizioni irreali, o, surreali, è un’esplosione di vitalità, che vuole spostare i confini sempre un po’ più in là nella consapevolezza che una lettura lineare della realtà è impossibile per sua stessa definizione. Perché la realtà è multipla, innumerevole. Luigi Pirandello, il nostro surrealista ante litteram, direbbe una, dieci, centomila realtà; una, dieci, centomila verità. E ognuna vale la pena indagarla fino in fondo, sprofondando nel magma del ricordo, della memoria, del trauma, della frustrazione. Per poi combattere o farsi alleati questi insetti/animali/uomini/anfibi/pesci che sembrano l’evoluzione dei disegni ottocenteschi di Yak Rivais o quelli di Frank Utpatel.
Antonello Serra, autodidatta, non fa altro che seguire le orme cerebrali di Isidore Ducasse conte di Lautréamont: questi ha messo in scena un grande poema dell’inconscio (I canti di Maldoror), poetando un’allegoria della nascita e della thanatografia. Il nostro artista esplora i meandri e i nodi del proprio Io sovrapponendo continuamente e confondendo desiderio e pulsione, morte e vita.
Le visioni del profondo, quando sono lasciate libere, creano un proprio linguaggio, irriducibile al linguaggio articolato e alle sue regole di costruzione: queste sono forme a-grammaticali e a-categoriali. Più che Sigmund Freud ci vorrebbe Gustav Jung per trovare, dietro ad ogni ombra, la figura matrice, l’archetipo. Ma siamo anche convinti che l’inconscio di Antonello Serra sia beneducato e non dica mai niente di sordido. Ogni pulsione, ogni stimolo, porta con sé l’elemento positivo e il suo opposto, come Giano bicefalo racchiude nelle due facce il nuovo e il vecchio, il passivo e l’attivo, il razionale e l’irrazionale. L’automatismo psichico trova qui la sua costruzione razionale e il tentativo ultimo di narrare, o di gridare, la propria vitalità. Che si chiami eros, pornografia, amore, odio, vita e morte. Termini diversi per indicare una sola cosa: l’amore folle per un linguaggio del corpo e della mente che sempre più la società tenta di ingabbiare, frustrare, simulare.

Fiorenzo Degasperi
Critico d'arte